Costruire, decostruire, ricostruire
Sulla trappola della sovversione nell'immaginario contemporaneo
Benvenuti in Mundus, uno spaziotempo ipercompresso dedicato alla metalogia della speculazione, dello storytelling e della scrittura.
La decostruzione della violenza, la violenza della decostruzione
Nel post di gennaio ho dedicato un po’ di tempo all’analisi di alcune tendenze grafiche e narrative tipiche degli anni Novanta, contrassegnate da un certo “eccesso di zelo”, potremmo dire. In fondo, questo tipo di esagerazioni è strettamente imparentato con la parodia e la “decostruzione”, ossia l’intenzionale messa in ridicolo, ambiguazione e messa in prospettiva di determinati trope. Ma cosa accade quando la decostruzione stessa finisce per diventare un trope?
L’occasione di riflettere su questa evenienza mi è stata offerta da un interessante post del filosofo, militante e nerd inglese Benjamin Noys, nel quale veniva posto il dubbio che la decostruzione conducesse, in modo più o meno diretto, al cinismo (mi pare che questa sia la sostanza del post). Noys (giustamente) imposta il discorso in maniera assolutamente “casual”, senza argomentare e senza proporre soluzioni. La risposta degli altri utenti (sia sul post originale sia sul mio repost), tuttavia, è stata molto forte: si sono venuti a produrre più o meno due schieramenti, quello di chi era d’accordo in modo acritico e quello di chi difendeva la decostruzione in modo altrettanto acritico.
Negli ultimi anni è diventato piuttosto evidente come il pubblico mainstream abbia accettato, persino acclamato la figura dell’anti-eroe, identificandosi con vigilanti fuori di testa e vendicatori intenti a farsi giustizia da soli. Un paradigma che vale tanto per gli uomini (vi vedo in giro con la maglietta del Punisher…ce l’ho anch’io), quanto per le donne (pensiamo al recente successo dei revenge movie al femminile); ed è forse questo il fatto più sorprendente. L’inverso, invece, è accaduto per il pubblico che più si era appassionato ai meccanismi imprevedibili della decostruzione: un’ondata di nostalgia e noia, condita da una certa disperazione, si è abbattuta sui più classici lettori di Ennis, Morrison e Moore (e lo stesso Moore sembra aver rinnegato buona parte dei suoi lavori fondamentali). In breve, ci siamo stufati. Nel momento stesso in cui uno show come The Boys (un nome che è più volte comparso in questa newsletter) si è abbattuto sull’universo delle piattaforme, noi ci siamo rotti le palle.
Ci siamo accorti che quei personaggi che, su carta, quando avevamo 16/18 anni, ci facevano morire dal ridere mettendo in ridicolo il fin troppo serioso mondo dei comic, ci stavano proprio ma proprio antipatici. Di colpo, ci siamo resi conto che quei guizzi di trama (l’allucinazione, il sogno morboso, l’intervento di un deus ex machina divino, la fantasticheria che assuma forma materiale e chi più ne ha più ne metta) non erano che trovate iperboliche, utili a prendere per i fondelli il lettore. Alcuni hanno addirittura preso coscienza che quei protagonisti così anomali e all’apparenza così inermi, così vessati dalla vita e così in balia degli eventi, erano dei grandissimi stronzi. La violenza di questi mondi “più che reali” – violenza alla quale i nostri amati personaggi si adeguano, anziché ribellarsi – ci ha improvvisamente disgustati. Ovviamente, niente di tutto ciò è vero in assoluto o in generale. Ho solo provato a mettere nero su bianco ciò che certe persone hanno provato di fronte a certi show. Ma è di questo che parliamo, quando parliamo di cinismo.
La connessione con l’alt right posta da Noys in chiusura del post (quando parla della tesi che sta seguendo) è un aspetto piuttosto esoterico ma, al contempo, dannatamente evidente. I temi del realismo politico, del volontarismo e della violenza privata, posti da numerosi fumetti e show degli ultimi quarant’anni, hanno attratto l’estrema destra come mosche sul miele, conducendo a interessanti sviluppi teorici e mediatici. Tra i più bislacchi, c’è l’abbandono di massa di serie e testate “problematiche” da parte delle loro stesse aziende creatrici.
È il caso del reboot di The Punisher, accolto dai fan come l’ennesimo crimine della cultura woke. Un altro esempio è l’estrema ambiguità alla quale si prestano prodotti come The Boys (e i suoi spin off) o Watchmen: i protagonisti di queste storie sono solo personaggi messi “in prospettiva” o veri e propri eroi? La risposta, ovviamente, dipende da come si pone la questione, ossia “da che punto di vista la si guarda”. È questo, in fondo, l’idea alla base della messa in prospettiva. E, credetemi, si tratta di un meccanismo tipico del pensiero reazionario. Applicate le stesse argomentazioni ai vari casi di legittima difesa in risposta a tentativi di rapina e capirete perché. (ATTENZIONE: non è così automatico che si tratti di qualcosa di totalmente inutile per il pensiero in sé; sto solo mettendo in chiaro che è problematico dal punto di vista politico ed etico).
Questa modalità di pensiero rientra nella più generica passione della destra alternativa per il “cinsimo” (o per quello che viene interpretato come cinismo), ossia una messa in questione radicale di tutti gli ideali progressisti e di giustizia sociale tipici della sinistra. Non è un caso che Machiavelli, Hobbes e Schmitt dominino ancore le proposte bibliografiche della destra accanto a classici autori tradizionalisti quali Robert Filmer. Vi invito, a tale proposito, a dare un’occhiata agli articoli di uno degli ex-idoli dell’alt right americana, l’elegantone Michael Anton. In tal senso, è necessario notare come la destra, nonostante tutte le bizzarrie, abbia sempre amato definirsi realista (fin dai tempi di Burke, in effetti).
Non sorprende che la Disney voglia sbarazzarsi di un vigilante bianco che trascorre il tempo a prendere a fucilate i criminali senza alcuna analisi preliminare. Non sorprende neppure che preferisca pubblicare storie su adolescenti facenti parte di minoranze etniche o religiose, o apertamente non binari. Non si tratta solo di un aspetto commerciale, ma di un ampliamento di target fondamentale. C’è forte richiesta e i tabù sono saltati, tutto qua. Per questo – come ben dice Noys – non c’è più spazio per la figura del supereroe golden age: un simile ritorno si può dare solo nella cornice di uno sdoganamento del totalitarismo moderno, come ha dimostrato un’altra grande opera decostruttiva, sarebbe a dire Superman: Red Son di Mark Millar (2003). Persino una letterale “super-tata marxista”, simile a quella auspicata da Mark Fisher (sulla scorta di Žižek) nel finale del suo Realismo Capitalista, non farebbe che rilanciare il mito di un super-ego o “grande Altro” che sa meglio di noi stessi ciò che desideriamo e ciò di cui abbiamo bisogno.
Sorprende, invece, che nonostante tutte queste reticenze da parte delle grandi corporazioni, il grande pubblico abbia deciso di snobbare film quali The Marvels (2023) o The Eternals (2021), per buttarsi a capofitto su opere di gran lunga più avvincenti e destabilizzanti. E, ovviamente, più ambigue e ironiche dal punto di vista politico e morale. Si sarebbe quasi tentati di affermare che l’attuale cultura pop abbia subito un deciso shift a destra (ma non è forse vero che lo è sempre stata?), nonostante tutti gli sforzi del capitale di applicare il paradigma della sussunzione. Non è più sufficiente catturare e riproporre in chiave soft le istanze della popolazione.
Ciò pone forti interrogativi sulla stabilità e salute mentale non solo della popolazione in sé ma, in particolar modo, del sistema. Sono diversi anni, ad esempio, che l’immaginario popolare è attraversato dallo scenario della guerra civile, dai vari judgment day carnasciali fino alle vere e proprie insurrezioni di massa. (Consiglio, a tal proposito, la nuova newsletter del collega Anthopocenist). L’idea girardiana che circola nell’aria è che la violenza indiscriminata e autodistruttiva sia l’unica valvola di sfogo per la frustrazione e che nessun’altra risposta sia possibile.
Subcreatori di mondi
La mia proposta in merito è, grossomodo, sempre la stessa: appropriarsi dei mezzi di produzione di immaginario. Scrivere le nostre storie, realizzare le nostre grafiche, espandere i nostri mondi…anche, e soprattutto, a partire da quelli degli altri.
La storia filosofica del termine “decostruzione” rimanda, prima ancora che al francese Derrida, al tedesco Heidegger. Ed è una strana coincidenza che uno dei primi autori a lavorare al personaggio di Frank Castle si sia ispirato proprio al concetto heideggeriano di “essere per la morte”. Per Heidegger, decostruire non significa esattamente distruggere, quanto…smantellare, togliere tutto il superfluo, eliminare tutto quel che si è accumulato in anni e anni, fino a raggiungere il nucleo originario di una parola, di un concetto o di una situazione. Questo è ciò che si dovrebbe fare in questo caso. E non vi è alcun dubbio che chi ha creato i primi supereroi lo ha fatto, innanzitutto, per offrire un esempio di moralità ideale, capace di adattarsi in modo empatico a ogni epoca e contesto storico; per questo i metaumani sono sopravvissuti ai dilemmi etici di ogni epoca fino a oggi. In secondo luogo – e, forse, si tratta dell’aspetto più importante in assoluto –, chi ha creato le prime storie di supereroi lo ha fatto per donare al mondo un nuovo modo di immaginare, qualcosa di assolutamente incredibile e meraviglioso e, al contempo, originale. Per questo l’idea che i metaumani non siano altro che (o, meglio, siano solo) archetipi divini è stupida e banale.
All’origine di tutto vi è un atto di creazione che rende chi crea un fan: qualcosa di simile a creare un dio e trasformarsi di colpo in seguace. Non un atto divino, ma un processo immaginativo potenzialmente senza inizio né fine, un gesto attraverso cui si cedono le redini del mondo a ciò che si è creato. Lavorare su un mondo di supereroi significa, sempre, lavorare su qualcosa che è già caratterizzato da un archivio, da una serie di conoscenze e riferimenti, da una cronologia e da una metafisica precise. Un supereroe ha sempre un modo alle spalle, persino in origine, quando i confini sono ancora poco chiari ed esistono solo da qualche parte nella nostra testa. Per tale ragione, lavorare su un mondo di supereroi significa, sempre, lavorare a una fan fiction.
Oggi, la fan fiction rappresenta l’unica soluzione a un double bind che si fa sempre più soffocante e fallimentare: da un lato, le grandi case editrici e le case di produzione cinematografica sono arrivate non solo ad analizzare e predire i gusti del grande pubblico (tramite l’impiego dei big data) ma anche a plasmarli e pilotarli in modo intenzionale (il processo che ha condotto agli attuali cinecomic ha rappresentato proprio questo grande passo). Dall’altro, questo procedimento si è rivelato fallimentare, dal momento che la “realtà reale” – per capirci, quella che è più reale del re – è giunta a pretendere il conto con tutti gli interessi: non c’è nessuno a difenderci dalla crisi economica ed ecologica, dal collasso sociale e dalla violenza di Stato (di certo non una supereroina queer buddhista di origini polinesiane); ragion per cui dobbiamo difenderci da soli. Una proposta che sembra giungere dal basso ma che, a ben vedere, è figlia delle dinamiche concorrenziali di altre grandi case editrici e case di produzione. Il dilemma non è The Marvels vs The Boys, Cultura Woke vs Il Popolo. La vera dualità è tra Walt Disney Corporation e Amazon. Mai come oggi l’ideologia è cultura e la cultura è spettacolo.
La fan fiction (il “brutto” letterario, fumettistico, cinematografico e via dicendo) fa sì che il fruitore riprenda possesso non solo dell’opera, che è sempre un “bene collettivo”, ma, soprattutto, della propria facoltà immaginativa. Pensare e ripensare un’opera d’arte, anche quando è di mero intrattenimento, rappresenta un libero esercizio e un’autentica esplorazione delle proprie capacità, dei desideri e delle fantasticherie. Senza contare che, quello della fan fiction, è un modo potentemente incentrato sul confronto con gli altri dilettanti, autori e lettori. Non c’è nessuno, qui, che impone delle regole, delle trame, dei limiti, delle visioni del mondo e dei copyright. Tutto è perfettamente aperto e, al contempo, delimitato, come in una sandbox.
Annunciazione! 🐉
Il 12 aprile è uscito per le super-tipe di Moscabianca questo mio piccolo libro dedicato all’esplorazione filosofica di Dragon Ball. Inutile dire che non avrei mai trovato una chiave interpretativa senza aver prima ideato questo spazio virtuale. Vi anticipo che non si tratta di un libro che parla di filosofia attraverso Dragon Ball, o viceversa. Non è decisamente nel mio stile. Diciamo che è più vicino a Žižek e Deleuze che a La filosofia dei Simpson, o dei Metallica, o di Peppa Pig o quant’altro. Se volete capire cos’è che rende Cell l’essere perfetto e, al tempo stesso, l’avversario meno temibile di tutti quelli affrontati dai Guerrieri Z, beh, allora compratelo e fatemi sapere! (Poi la copertina è bellissima e vi assicuro che lo è anche il formato).
Ciao, a tra qualche giorno! ;)