Mondi kitsch, pacchiani, praticamente esagerati
Gestire gli eccessi senza fot#ere tutto: una guida teorico-pratica
Benvenuti in Mundus, uno spaziotempo ipercompresso dedicato alla metalogia della speculazione, dello storytelling e della scrittura.
L’Impero del Kitsch
Nel 1996, per rendere più attuali e accattivanti i vecchi supereroi della Golden Age – e sopperire a un improvviso quanto radicale calo delle vendite – Marvel dà il via all’iniziativa “Heroes Reborn”, con la quale alcune delle principali testate dell’editore venivano affidate allo studio privato di Jim Lee (illustratore reso celebre dalla durezza e precisione del tratto) e Rob Liefeld (un creativo noto per le sue idee controverse e lo stile dissacrante). Il risultato fu spaventoso, in tutti i sensi. Le pagine di Thor, Iron Man, Hulk, Captain America, Fantastici Quattro, Avengers e molti altri divennero di colpo sature di toni scuri, quasi soffocanti; le vignette riempite all’inverosimile, in preda a quello che, oggi, appare vero e proprio horror vacui; un’ossessione per i primi piani e i piani americani, con inquadrature così ravvicinate da far venire il mal di mare. E soprattutto, muscoli. Montagne di muscoli ovunque, addosso a uomini, donne, alieni, animali e persino entità ipoteticamente disincarnate. Per non parlare della cura certosina nel costruire personaggi femminili al di là di ogni standard fisico.
Di questo periodo resta iconica la cover prodotta da Liefeld per la versione reborn di Captain America: un’accozzaglia di proporzioni disumane, senza la benché minima ombra di prospettiva – un’idea mutuata da una classica foto di Arnold Schwarzenegger all’apice della carriera.
Liefeld è stato un po’ il padrino del kitsch fumettistico. Non a caso, nel corso degli anni ‘90, contribuì a fondare la Image, casa editrice che vanta nel proprio catalogo pilastri dell’eccesso quali Spawn, Savage Dragon e Angela (personaggio creato da Neil Gaiman e acquisito dalla Marvel nel 2013). E non bisogna neppure dimenticare che fu proprio Liefeld a creare il più grande capolavoro del kitsch “a fin di bene”: Deadpool. Ciascuno di questi personaggi condivide con gli altri un insieme di fattori chiave: muscoli a non finire, ben poco cervello, un insano gusto per la violenza e un’attitudine in bilico tra Punk e brutalità Heavy Metal.
Fu questo insieme di fattori a “LOBOtomizzare” il mondo dei comics, nel senso di una proliferazione incontrollata di personaggi animati dallo stesso spirito di Lobo, il bounty hunter spaziale creato negli anni Ottanta della DC – divenuto, nel corso dei ‘90, parodia di se stesso e di tutti i super a lui ispirati.
Ehm, ok Rob ma anche meno…
Ma le origini del kitsch nei fumetti di supereroi possono essere ricondotte alle origini del mito stesso, ossia alla Golden Age. Il Miracleman di Alan Moore, di fatto, svolge proprio questo tipo di operazione: prelevare gli elementi più assurdi e pacchiani dei primissimi super e interpretarli come un’immensa psyop, condotta dal potere sul piano degli archetipi e dell’immaginario collettivo. Per Moore, il fatto che ogni supereroe avesse come spalla un ragazzino acqua sapone, che indossasse ridicoli mutandoni, che collaborasse senza problemi con la polizia e persino con il governo, che vedesse come suoi unici nemici i criminali, qualche scagnozzo spedito in Occidente dall’Unione Sovietica o, al massimo, vecchi relitti del Terzo Reich, non è altro che la traccia residua di un gigantesco sogno collettivo di benessere e superiorità morale. E non ha tutti i torti.
Come vedremo, i supereroi dell’Età dell’Oro sono stati capaci di imprese in grado di superare di gran lunga il già enorme potenziale a loro attribuito dai vari retcon degli anni Ottanta e Novanta (parliamo di spostare stelle e pianeti, viaggiare nel tempo, superare la velocità della luce, sopravvivere a soglie di calore prossime a quelle nucleo solare, risorgere dalla morte, risolvere indovinelli del tutto privi di senso e via dicendo). Lo stesso si può dire dei villain introdotti nella prima metà del secolo – basti pensare a Mr. Mxyzptlk (apparso per la prima volta nel 1945), un’entità multiversale all’apparenza onnipotente, in grado di piegare le leggi naturali alla stregua di un cartone animato della Warner. La forza e l’arguzia sovrumane di questi personaggi, tuttavia, era controbilanciata dai loro aspetti “sovra-fictionali”, potremmo dire – o forse persino “ur-fictionali”, ossia correlati a una totale assenza di realismo. Aspetti che sfociano, nella stragrande maggioranza dei casi, nel ridicolo.
Il Miracleman “rinato” di Alan Moore
Un esempio tanto lampante quanto nobile di questo spirito ludico e buffonesco è rappresentato da Krypto, il cane di Superman, creato verso la metà degli anni Cinquanta. Per giustificare l’inserimento di un cane dotato degli stessi poteri cosmici del più forte supereroe in assoluto, la DC giunse a teorizzare un’incredibile, anzi, improbabile, convergenza evolutiva tra le specie terrestri e quelle kryptoniane (convergenza dettata, in ultima analisi, dal fatto che i kryptoniani siano fisicamente indistinguibili dagli esseri umani). Tutto ciò su un pianeta dotato di un sole diverso da quello della Terra, nonché di una forza di gravità nettamente superiore. Vabbè. Quel che conta è che Krypto fece fin da subito breccia nel cuore dei lettori – e come poteva non essere, in fondo stiamo parlando di uno stramaledetto meticcio taglia media bianco latte in grado di volare ed emanare raggi termici dagli occhi. Nel corso degli anni, gli autori dotarono Krypto di balloon a lui dedicati, attraverso i quali (come Pluto prima di lui) divenne in grado di pensare ed esprimersi. Il cane di Superman rappresenta uno degli apici dell’ingenuità dei creatori di comic pre-Settanta, ma anche del legame (non più così) segreto tra idee, lobby e ricerche di mercato. Immaginate la reazione di un dodicenne che, di colpo, apprende che Superman ha sempre avuto un cane. Ecco.
Il problema, purtroppo, è che un sogno resta sempre un sogno e, prima o poi, ci si deve svegliare. Nel 2001, in un arco di uscite comprese tra Superman #168 e #170, intitolato “Beware of Super-Dog”, Krypto è stato tagliato fuori dalla testata. L’idea, di per sé, è un colpo di genio: durante uno scontro tra Superman e il tiranno spaziale Mongul e sua sorella Mongal, nel quale il protagonista è sul punto di soccombere, Krypto si avventa contro Mongul, azzannandolo alla gola e quasi uccidendolo. Così, il dolcissimo cane che aveva popolato i sogni di tanti figli del dopoguerra fu degradato al ruolo di “cane cattivo” e confinato nella Fortezza della Solitudine, reo di essere un animale e, pertanto, incapace di controllare la propria straordinaria forza. Un sacrificio, anche piuttosto crudele, compiuto in nome del realismo radicale che, di lì a poco, avrebbe investito tutta l’industria dei comic.
La Marvel corse ai ripari quello stesso anno, liberando gli X-Men dai loro ingombranti costumi e dotandoli di pratiche uniformi da combattimento (merito di un altro re indiscusso, Grant Morrison). Lo stesso era avvenuto, alla fine degli anni Ottanta, con Spiderman, grazie a storie sempre più oscure e intricate, dominate da un realismo e da un pessimismo che, fino a qualche anno prima, sarebbero risultati impensabili per un personaggio così amato dagli adolescenti. Questo periodo, compreso tra la prima metà degli anni Ottanta e la seconda metà degli anni Novanta, costituì per la Marvel un laboratorio dedicato alla sperimentazione di paradigmi palesemente sottratti ad altre case editrici: la violenza e la scorrettezza politica della Image; le saghe cosmiche della DC; le potenze soprannaturali della Vertigo; i crossover improbabili e i team di teenager grungy-goth della Dark Horse; le invasioni di ninja, samurai, katane e villain ispirati ai manga giapponesi. Se la (moderata) tendenza al realismo era già divenuta il marchio di fabbrica di alcune testate minori della Casa delle Idee – quali The Punisher, Blade, Wolverine e Daredevil – ora era giunto il momento di abbandonare del tutto le vestigia della Golden Age. In tal senso, operazioni come Heroes Reborn e, più avanti, Ultimate, parlano chiaro.
Krypto secondo il gran mogol Alex Ross
Eppure, nonostante gli sforzi degli autori più blasonati dell’epoca, i Novanta sfociarono in un prepotente ritorno del kitsch, sia nelle storie sia nelle illustrazioni.
Una variante fumettistica di ciò che il filosofo e sociologo francese Jean Baudrillard denominò “iperreale”: una sublimazione del reale così intensa, così imponente, da culminare nell’abolizione della realtà stessa. Pensate alle pubblicità dei detersivi, nelle quali le proprietà (vere o false che siano) del prodotto vengono magnificate a tal punto da farvi rimanere impressa nella mente un’idea astratta di quest’ultimo. Quel che succede, in tal caso, è che quando acquistate il prodotto, ciò che pagate alla cassa non è quella singola, specifica confezione – né le componenti chimico-fisiche contenute al suo interno – ma esattamente questa idea astratta: il brand, sarebbe a dire una confusione aprioristica tra segno e simbolo.
Lo stesso, per Baudrillard, accade quando si verificano eventi talmente assurdi e talmente improbabili, da far vacillare il senso di realtà di chi vi assiste (come nel caso dell’attacco alle Twin Tower), o quando ci impegniamo in attività di per sé ridicole e ingiustificate (come fare jogging dopo esserci abbuffati al cenone di Natale).
Un’esperienza molto simile si impossessa di chi segue The Punisher – il meno eroico e più realistico dei personaggi Marvel – mentre massacra orde di criminali, o affronta (e sconfigge) personaggi dotati di poteri che, in teoria, dovrebbero schiacciarlo in un battito di ciglia. Qui, la realtà del vigilante di strada viene sommersa e annegata in un habitat sovrumano, senza che ciò venga mai segnalato a livello meta-fumettistico. Anzi, il lettore gode di tale sospensione della realtà che pretende di essere più vicina alla realtà di un uomo volante in mutandoni rossi, proprio come gode chi si crogiola beato in un sogno.
La forza del kitsch, in breve, sta nel suo sfacciato irrealismo, nello sbattere in faccia al lettore stati di cose, comportamenti, dialoghi, vicende e persino corpi del tutto privi di qualunque senso del limite o della misura.
La rimozione (in senso quasi psicanalitico) del kitsch dalla narrazione fantastica, al contrario, produce un’inversione inaspettata, ossia cede al sogno e all’immaginario molto, molto più di quanto essa possa anche solo pensare. Non possiedono, forse, i sogni quella certa consistenza alla quale non riusciamo a non cedere fino al risveglio?
L’epopea dei cinecomic Marvel, da questo punto di vista, ha condotto tale aspetto a un grado mai visto prima, puntando tutto su una generalizzazione indiscriminata delle tute da combattimento degli X-Men. Depotenziare gli eroi, eliminare i costumi o renderli più simili a dispositivi tecnologici o magico-religiosi, abbassare il super al livello dell’umano, esiliare dalle sceneggiature i personaggi più assurdi e pacchiani: questo è il progetto al quale il MCU si è dedicato negli ultimi anni.
Come direbbe Alan Moore (e forse l’ha detto, o almeno pensato, davvero): orde di fan si precipitano periodicamente nei cinema per farsi fare il lavaggio del cervello da film incentrati sulle imprese di una serie di agenti del Pentagono dotati di poteri che li rendono l’élite di tutte le élite. Ciò, in fondo, non è esattamente vero ma neppure totalmente falso. Come mostrato da Miracleman e Watchmen negli anni Ottanta, il kitsch dell’Età dell’Oro operava alla stregua della tenda del Mago di Oz: dietro di esso si celava lo spettro del potere, la corruzione dei veri affetti umani, la possibilità che il superpotere non fosse altro che uno sgargiante alibi per la Volontà di Potenza. Rimossi il drappeggio dei colori, l’insensatezza dada dei villain, lo sconfinato orizzonte dell’impossibile, tutto quel che resta non è che ciò che si voleva a tutti i costi nascondere. Non è affatto strano, pertanto, che la produzione più immaginifica legata al MCU sia proprio Guardians of the Galaxy, un franchise semi-serio incentrato su svariati personaggi non umani e saghe cosmiche di minore entità. Lo stesso si può dire della metacinematografia auto-ironica di Spiderman: No Way Home.
Friend or frog?
Come affrontare, dunque, quella che permane in noi sotto forma di compulsione infantile, ossia l’urgenza, quasi la necessità, di creare personaggi, storie e mondi irrimediabilmente kitsch?
Un indizio ci viene offerto da un personaggio minore che ha esordito nel 1967 su Daredevil #25. Mi riferisco a Vincent Patilio, meglio conosciuto come Leap-Frog, un villain più che dilettante – votatosi al crimine al solo scopo di sfuggire alla povertà – dotato di un costume da rana che gli dona il potere di spiccare balzi sovrumani (per certi versi, una copia ancor più stravagante del mai abbastanza celebrato Shocker). Com’è ovvio, la carriera criminale di Patilio ha visto più bassi che alti, dando forma a un personaggio versatile e sfaccettato: un padre single, un ladro di scarsissime pretese, carne da cannone per i signori del crimine, eterna riserva per vari gruppi di supercriminali. La parabola di Patilio è sensazionale: per quasi dieci anni lo si vede popolare i bassifondi, apparendo qua e là di sfuggita, sempre alle prese con i suoi piccoli problemi quotidiani. Poi, nel 1976, Leap-Frog ricompare al fianco dell’Uomo Ragno, deciso a dare una svolta alla sua vita e non permettere che il figlio segua il suo stesso percorso, offrendo a quest’ultimo un esempio di onestà e rettitudine morale. Così, Vincent Patilio finisce per abbandonare tanto la propria carriera criminale quanto la sua identità segreta – che verrà in seguito recuperata dal figlio, Eugene Patilio, nei panni di Frog-Man, un “quasi-supereroe più-che-dilettante”.
Come dimostra la storia editoriale di Leap-Frog, l’irruzione del reale – con le sue ingiustizie e storture – all’interno del kitsch si trasforma nell’occasione perfetta per elaborare trame e personaggi complessi. Tale paradigma ha influenzato opere di grandissimo interesse metanarrativo, quali Kick-Ass e il più recente Invincible, che hanno saputo fare tesoro della combinazione perturbante tra kitsch e realismo.
In sostanza, per tornare al discorso del “cane di superman”, tenere Krypto avrebbe significato fare i conti con l’animalità reale di un personaggio immaginario: un’istanza irricevibile quando la lore è instabile o soggetta a frequenti alterazioni dettate dal mercato. Ciò vale anche per Bucky Barnes, la spalla di Captain America (abilmente convertito nel Soldato di Inverno), o per i vari Robin (le vicende biografiche dei quali risultano sempre piuttosto disturbanti). Tutto sta nel “saper fare qualcosa” con i personaggi, nel tirarli fuori dal kitsch senza spogliarli del tutto delle loro caratteristiche immaginarie.
Il rischio opposto al kitsch, dopotutto, è il falso-realismo che domina le opere di illusione (la versione corrotta delle opere di immaginazione). Non si tratta solo di un contrappunto etico, ma di una questione stilistica: strappando via il telo del post-moderno tutto in una volta, non si ottiene altro che una variante “stravagante” del mondo reale o, anche, il doppio burocratico e ingrigito di un mondo fictionale. Il meccanismo che presiede a tale sdoppiamento procede al contrario di quello che fa sì che il reale emerga dal kitsch: qui, sono il kitsch, l’eccessivo e l’insensato a erompere dal quotidiano.
Se Leap-Frog fosse stato un comune criminale dotato di stivaletti a molla (sia nel fumetto sia nella brutta serie She Hulk), la grana delle vicende non sarebbe cambiata poi così tanto, ma sarebbe di certo saltato il velo onirico che segnala a chiare lettere che non si tratta di una vicenda reale, di qualcosa di non narrativo – di qualcosa di anche solo lontanamente possibile. A vincere sarebbe stata l’ideologia, non l’immaginazione. Per questo un personaggio astratto e ambiguo come il Joker funziona più come Salvador Dalì o Georges Bataille impazzito, che come gangster modaiolo e tatuato – mentre Due Facce funziona meglio nella sua forma originale (adattata da Joel Schumacher nel 1995), che nei panni del pubblico ministero impazzito.
Il pericolo sta tutto nell’“effetto tunnel” che fa sì che il moderno venga contrabbandato nell’iper-moderno – sarebbe a dire l’ideologia allo stato puro – attraverso la brusca rimozione del post-moderno, ossia il tentativo kitsch di superare il reale attraverso il libero gioco dell’immaginazione. Il termine “moderno”, in questo caso, sta per la mancata distinzione tra realtà e rappresentazione (o idealismo assoluto).
Quando ciò accade, l’effetto complessivo sui personaggi, sulla trama e sull’ambientazione è il grigio, lo standardizzato, il comune, la mediocrità generalizzata.
Nel prossimo episodio parleremo di personaggi overpowered, non mancate.
E ora un po’ di link.
Mondi piuttosto tranquilli
Nelle ultime settimane, forse a causa dei grandi cambiamenti avvenuti nella mia vita e della radicale mancanza di tempo, mi sono appassionato a un certo tipo di muzak di matrice new age, vagamente influenzata dalla musica cosmica, dalla ambient e dalla musica concreta. Nulla che richieda particolare attenzione o ascolti approfonditi.
A un certo punto, però, mi sono reso conto di trovarmi al cospetto di un bacino sconfinato, una vera e propria Fossa delle Marianne musicale: centinaia, anzi, migliaia di album registrati tra la fine degli anni Settanta e la prima metà dei Novanta. Dischi e tape che avranno venduto, nel corso del loro primo anno di pubblicazione, si e no qualche scatola di copie.
La colpa è tutta di un canale che rintraccia, compra, colleziona e digitalizza tali opere, Sounds of the Dawn (che come immagine di profilo ha un più che eloquente uccello dalle ali spiegate).
Vi lascio solo dei link in ordine sparso ad alcuni dischi che, per puro caso, ho ascoltato più degli altri. Esplorate da voi il resto – e capirete quanto siamo ancora in tema kitsch.
Scott Fitzgerald - Bamboo Waterfall (Wind Chimes & Bells) [1990]
Letteralmente un field recording di acqua che scorre accompagnato da strumenti ad aria e campane, non sto scherzando. Imperdibile.
Project Q - The Entropy of Orion [1986]
Un concept spaziale ispirato alla musica synth tedesca, al prog e alla psichedelia.
Laraaji - White Light Music [1987]
Drone. Drone. Drone. La versione acida della musica meditativa brutta che si trova su Youtube.
I Popol Vuh che anziché fare colonne sonore schizzate si dedicano a costruire “ambienti vibrazionali”. L’epitome del pacchiano.
Grazie di aver letto questo episodio di Mundus.
Ci vediamo alla prossima, a presto :)