Benvenuti in Mundus, uno spaziotempo ipercompresso dedicato alla metalogia della speculazione, dello storytelling e della scrittura.
È giunto il momento di fare il punto su alcuni temi della newsletter e mettere in chiaro un po’ di cose. L’occasione d’oro è stata l’incontro di ieri al Trenta Formiche, a Roma, per il festival “Finis Terrae”, dedicato ai temi dell’Antropocene. Qui ho avuto modo, assieme alla scrittrice e docente Emanuela Cocco, di ragionare un po’ su alcuni dei concetti portanti di questo spazio digitale.
Ringraziando Emanuela e gli organizzatori del festival, vorrei condividere con voi il testo del mio intervento di ieri.
Prima critica all’idiozia pura
Questa newsletter si nutre di problemi.
La divisione del lavoro e la settorializzazione delle competenze hanno condizionato scrittura e filosofia, indirizzando chi se ne occupa verso l’iper-specializzazione.
Chi fa filosofia fa molta fatica a distaccarsi dai due modelli dominati: quello accademico e quello divulgativo.
Chi scrive narrativa, invece, fa fatica anche solo a essere umano, dal momento che è privo di quasi qualsiasi competenza utile alla vita, se non (a volte, non sempre), quelle riguardanti le tecniche di scrittura.
Entrambi, nel corso degli ultimi decenni, hanno subito una traiettoria di collasso, che li ha condotti a trasformarsi da tuttologi o, meglio, “dilettanti universali" in grado di muoversi in diversi ambiti della conoscenza, a idioti, ossia soggetti mancati, del tutto incapaci di collocarsi all’interno di discorsi sempre più complessi e stratificati – quali quello sulla crisi climatica e quello sulle IA.
Nondimeno, per via di un puro automatismo, la società continua a reputare scrittori e filosofi come degli intellettuali, sebbene non abbiamo la benché minima idea di cosa stia succedendo.( Senza contare l’ignoranza, da parte di molti autori, riguardo agli stessi meccanismi editoriali, commerciali e giuridici che stanno dietro e attorno ai loro libri).
A ciò si va ad aggiungere un’ulteriore problematica, parallela e consequenziale.
Attraverso le analisi di mercato stilate da esseri umani e algoritmi, i lettori vengono profilati e indirizzati verso le cosiddette fasce di utenza. Ciò significa che ogni libro di ogni medio/grande/grandissimo editore ha un suo pubblico di riferimento (donne single, maschi ricchi, studenti fuori corso e altre etichette stereotipate), al quale è indissolubilmente legato dal punto di vista tematico, estetico e commerciale.
L’invenzione delle fasce di utenza ha fatto sì che il compratore di un libro sia trattato al pari del compratore di una lavatrice, e che gli stessi contenuti passino in secondo piano rispetto alle parole chiave (le keyword) e ai temi di attualità (hot topic).
La maggior parte degli articoli sulle riviste online seguono questo tipo di ragionamento e nessuno se ne è mai lamentato; perciò a qualcuno, in qualche grande gruppo editoriale, è venuta la splendida idea di copiarlo. Vai a capire perché.
Il cocktail non può che essere esplosivo. Giovani lettori immaturi e impreparati, vengono spinti a leggere quello che è sempre lo stesso libro con un titolo diverso, mentre il sistema scolastico e i loro idoli scrittori li indirizzano a riprodurre questo stesso modello in cui può proliferare la figura dell’intellettuale idiota. Qualcosa di molto simile ai cicli di vita della giardia o degli ascaridi. Un circolo vizioso, la cui punta di diamante sono i premi letterari e le assegnazioni delle cattedre universitarie.
Lo scrittore medio al lavoro
Metalogia o “come sono diventato una writers room ambulante”
La soluzione che ho deciso di proporre e di intraprendere è la via della metalogia ossia il discorso di grado insiemistico più alto.
L’ho fatto, innanzitutto, perché si tratta dell’approccio che mi risulta più familiare e intuitivo, e, in secondo luogo, perché si tratta del genere di discorso non-accademico che più ha fatto breccia sia nello stile narrativo degli ultimi decenni (attraverso la theory fiction) sia nel sistema accademico (con il realismo speculativo e l’accelerazionismo).
Il nucleo della metalogia consiste dello stesso metodo impiegato dalla non-filosofia di Francois Laruelle: individuare e isolare il punto di partenza di un certo pensiero (l’Io, il Divenire, l’Essere e via dicendo), e tentare di scoprire quale sia il principio portante di quest’ultimo (per l’Io, ad esempio, sarà sempre la soggettività; per il divenire il superamento del divenire stesso verso la distruzione o il congelamento dell’universo; per l’Essere la presenza o la memoria). Una volta portata a compimento tale operazione, sarà possibile andare a individuare cosa sia rimasto fuori dal nostro sistema filosofico di riferimento (come l’Altro per l’Io, il possibile o il rimosso per il Divenire e l’Essere).
Attraverso la metalogia si comincia a parlare di tecniche narrative in maniera schietta, al modo dei professionisti della grande distribuzione.
Il worldbuilding si rivela, così, non un’opera di pura fantasia, ma una disciplina a tutti gli effetti, che richiede l’intervento della storiografia, dell’antropologia, delle scienze, della storia delle religioni, della geografia e via dicendo.
Allo stesso modo, la costruzione di un personaggio chiamerà a raccolta la psicologia, la filosofia e il profiling – non solo l’esperienza concreta o l’immedesimazione. Mentre lo studio della trama sommerà a categorie quali continuità, discontinuità e intreccio, l’aiuto fondamentale del concetto, della teoria e dell’astrazione.
L’analisi di un concetto, invece, si approfondirà degli aspetti narratologici e immaginifici di un dato oggetto o sistema filosofico (pensate al profondo hegelismo del Cavaliere Oscuro di Nolan e provate a rifare il percorso inverso, da Hegel a Nolan).
Nella metalogia, insomma, ci si avvale di tecniche, modalità di pensiero e forme di vita lontane dalla purezza della scrittura letteraria o della filosofia accademica.
Non è una novità. Si tratta di qualcosa che viene già fatto e, soprattutto, che è stato fatto alla soglia della modernità e per lungo tempo prima della seconda metà del ‘900. In quell’epoca, gli scrittori e le scrittrici erano intellettuali curiosi; gli scienziati si intrattenevano con allegorie, storie e visioni profetiche; i filosofi, come Ludwig Wittgenstein e Georges Bataille, erano anche poeti che univano la potenza dell’immaginazione alla freddezza del concetto.
Non si tratta, tuttavia, di una mera questione di forma. La metalogia non è parlare di piante in modo poetico, né scrivere un romanzo incentrato su un concetto filosofico o un saggio con aspetti fictionali. Per applicare questo metodo è necessario andare di gran lunga oltre alle metafore, alle analogie e alla superficialità kitsch dell’accostamento. Un conto è dire che la terra assomiglia a una macchina del tempo; ben altro sostenere che essa è una macchina del tempo.
È necessario arrivare a pensare in modo un po’ folle per ricollegare i vari saperi e settori che sono stati smembrati dalla divisione industriale del lavoro, nonché per comprendere fino in fondo quanto la storia delle idee abbia influenzato il modo in cui percepiamo la realtà, o quanto l’immaginazione abbia condizionato l’attività degli scienziati. Basti ricordare l’episodio di Kekulé, che scoprì la struttura chimica del benzene dopo aver sognato un serpente che si mordeva la coda.
Ragionare da metalogici, in breve, significa diventare un po’ presocratici e un po’ una writers room ambulante.
Kekulè, l’ouroboro e il benzene. Tre cose all’apparenza distanti e invece…
Worldbuilding 0.5
Andrei a chiudere con qualcosa di più propositivo, accennando ad alcune tecniche di worldbuilding sulle quali mi sono soffermato a riflettere negli ultimi anni.
Per prima cosa, bisogna sempre tenere a mente che i mondi narrativi non sono il mondo reale. Allo stesso modo, i personaggi non sono persone reali.
Quando si costruisce un mondo o un personaggio, l’aspetto più rilevante è rappresentato non dal realismo ma dal principio. In breve, è necessario interrogarsi su quale principio governi il mondo o il personaggio che vogliamo creare.
Questa è la principale differenza, ad esempio, tra un mondo fantastico vivido e coinvolgente, e una mera distopia.
Non sono per nulla un amante delle distopie. Mi sembrano sempre finte, quasi pacchiane. Il motivo tecnico dietro questo rifiuto è il seguente: una distopia procede sempre dall’isolamento di un singolo aspetto negativo del mondo reale (come la burocrazia, la vecchiaia, l’indifferenza, la violenza, la gamificazione etc.), che viene poi propagato a ogni ambito della vita e dell’esperienza dei personaggi. Per certi versi, si tratta di un metodo affine a quello della filosofia (che non a caso è madre sia delle utopie sia delle distopie). Ma, a differenza di quella filosofica, la distopia letteraria sembra smarrirsi lungo tutta una serie di occasioni mancate.
È sufficiente un solo interrogativo a demolire l’impianto narratologico di una distopia: perché? Perché siamo finiti così, come ci siamo arrivati e a che scopo? A chi mai sarebbe potuta venire in mente una roba del genere?
Un mondo costruito con cura e passione, d’altro canto, parte sempre da un principio guida, che rappresenta la chiave storica, filosofica, narratologica e interpretativa di una data opera. Non si parte mai da un singolo aspetto dell’esperienza individuale o collettiva, ma da ciò che si vuole indagare: la solitudine, il conflitto, l’amore, il tempo e via dicendo; è questo il principio che tornerà e tornerà nel testo come un ritornello. Questo vale non solo per la narrativa fantastica o immaginifica, ma per qualsiasi genere letterario.
Se un mondo (che, attenzione, non è mai solo un pianeta), è governato da un principio guida, ogni altro aspetto sarà “derivante da” o “subordinato a” questo stesso principio.
Se una civiltà è ossessionata dal tempo, ad esempio, allora i suoi abitanti avranno cercato modi per pensarlo e inventato tecnologie per misurarlo e controllarlo; il lavoro sarà scandito da orari calcolati al minuto, e ci sarà sempre qualche privilegiato dotato di parecchio tempo libero; la religione dominante sarà ossessionata dal tempo: dal suo inizio e dalla sua fine, e giungerà a cercare un senso allo scorrere del tempo, sublimandolo in un’origine e in una destinazione; il tempo sarà la principale valuta di scambio e il bene più prezioso; la letteratura, la poesia e la filosofia si saranno rotti la testa in tutti i modi, tentando di penetrare i misteri della nascita e della morte, della storia e dell’esistenza, mentre le scienze avranno cercato metodi per analizzare in modo oggettivo la natura fisica e biologica del tempo.
Ovviamente, questo è il nostro mondo, non un mondo fantastico. E credo si tratti dell’esempio più potente e comunicativo che si possa offrire in ambito filosofico e narratologico.
Un regista come Mike Flanagan, per certi versi, ha tradito il principio guida di una trilogia perfetta, adattando tre classici dell’orrore astratto fondati sull’enigma più grande di tutti: quello del fato e dei suoi rapporti con l’esistenza umana. Sto parlando de Il giro di vite, L’incubo di Hill House e La caduta della casa Usher, che Flanagan ha adattato trasformandoli in drammi edipico-psicologici, basati su beghe familiari ed esperienze soggettive.
Kubrick, al contrario, nell’adattare The Shining – pur snaturando del tutto l’opera originale – riuscire a creare un perfetto quarto episodio per le tre suddette opere, chiudendo un cerchio perfetto all’insegna dei principi guida dell’incomprensibile e dell’ignoto.
James, Jackson, Poe e Kubrick si sono inoltrati nel labirinto del principio, là dove Flanagan si è perso nel cortile di casa.
In tutto ciò, la metalogia è l’analisi critica che consente di arrivare dritti al punto, di cogliere il principio e di concepire l’opera come un oggetto stratificato – e, a volte, per assurdo, come un soggetto: qualcosa di embrionale che cresce, si sviluppa, pensa e diventa autocosciente e che, infine, muore.
Da questo punto di vista, è importante comprendere che il worldbuilding non è un sistema ordinato tratteggiato su una lavagna, né una miriadi di foglietti attaccati al muro. Non si tratta di conoscere in anticipo ogni singolo aspetto (cosa che comunque avviene all’interno delle writers room dei vostri franchise preferiti).
Quando si costruisce un mondo o un personaggio si deve fare i conti con quella che gli strateghi militari chiamano nebbia di guerra: un velo di ignoranza deterministica, che fa sì che non si possa sapere in anticipo cosa ci sia poco più avanti.
Ciò accade perché non vi è davvero modo di cogliere tutto il mondo in un solo pensiero, di avere una visione completa di tutti i fenomeni e di tutti i saperi. Perciò si procede poco alla volta, passo dopo passo, scoprendo il mondo mentre si fa.
Una mappa non ufficiale del Bas-Lag, il capolavoro di worldbuilding di China Mieville.
In conclusione, direi che i due aspetti più “meta” che possano mai entrare in un discorso sulla letteratura sono il subconscio e il lavoro stesso.
Il subconscio è quel meccanismo sintetico che fa sì che la nostra immaginazione non elabori soltanto le percezioni, ma ne serbi anche qualcuna per sé, la rimugini, ancora e ancora, e la risputi fuori senza che neppure ce ne rendiamo conto.
Quando si pensa o si scrive, è sempre importante (non fondamentale né obbligatorio, per carità) mettersi in cerca della fonte originaria delle immagini, delle scene e dei concetti che ci attraversano la mente. È lì, infatti, che spessissimo si nasconde il principio guida – nel contenuto emotivo che si cela alle radici del pensiero.
Il lavoro, invece, non è altro che il lavoro pratico dello scrittore, la perizia artigianale che si infonde in un’opera inedita o in una traduzione. Troppo spesso si fa riferimento al mestiere dello scrittore o dello studioso come a un lavoro “astratto”, “cognitivo” o di “genio”. Ci si dimentica sempre che senza l’azione più meta di tutte, ossia mettersi a scrivere, iniziare e continuare a lavorare con costanza e dedizione – seguendo le tracce disseminate dall’inconscio e l’avventura del concetto o della trama – nessuna opera potrebbe mai esistere.
Ciao e a presto :)
Claudio