Benvenuti in Mundus, uno spaziotempo ipercompresso dedicato alla metalogia della speculazione, dello storytelling e della scrittura…
Ma non oggi. Oggi parleremo di lavoro e pessimismo filosofico.
Sgombrare la mente
Vorrei partire da una nota personale che non ha molto a che fare con la costruzione di mondi e personaggi, né con la filosofia o le tecniche narrative, ma che è comunque intrecciata a doppio filo con la riflessione critica e i processi creativi.
Ultimamente, dopo diversi anni, ho cominciato a essere davvero insoddisfatto del mio lavoro. Si tratta di un lavoro esattamente nella media: non un cosiddetto lavoro “di fatica” (o, almeno, non per la maggior parte del tempo) né un lavoro di prestigio; non un lavoro manuale e neppure un lavoro cognitivo.
Il fatto è che si tratta di pura e semplice insoddisfazione, dettata dall’impossibilità di trarre veri benefici economici da questo lavoro, o persino qualcosa di positivo a livello umano. Ho ben pochi rapporti con i colleghi e ancor meno punti di contatto – un fatto dettato sia dal lavoro in sé, sia da una mera e brutale differenza di classe.
Mi ritrovo intrappolato in un tunnel in cui ripeto sempre le stesse azioni, giorno dopo giorno – senza che tali azioni abbiano un qualche valore o un significato più ampio, tanto per me quanto per gli altri. Una situazione dalla quale non posso sfuggire, dal momento che gli altri lavori che svolgo non mi garantiscono entrate sufficienti.
Non ho alcuna via d’uscita.
Col tempo, tale insoddisfazione è sfociata, dapprima, in alterazione dell’umore e ansia passeggera, poi in una condizione cronica di stanchezza, rabbia, depressione e ansia profonda. Ad oggi, faccio fatica a uscire di casa senza sentirmi come se un peso mi gravasse sul petto. Persino quando non devo andare a lavoro, nonostante il sollievo passeggero, sto già lì con la mente.
La cosa peggiore è che trasformo ogni minuto libero in un occasione per non pensare, abbandonandomi ai social network o alle applicazioni sullo smartphone; un passatempo doppiamente inutile, perché anche quando mi soffermo a leggere dei post o a seguire un thread, non provo alcuna spinta a partecipare in modo attivo. I giochi di carte collezionabili e i gashapon hanno sostituito i giochi cartacei, con i quali ero solito passare lunghi periodi di tempo, di quando in quando. Non riesco né a leggere né a dedicarmi a qualcosa che non sia superfluo e di rapido consumo. Le parole fanno fatica a uscirmi di bocca e, se posso, preferisco non prender parte a una conversazione. Infine, anche se volessi parlare con qualcuno del mio problema, tutto quel che riuscirei a fare non sarebbe altro che lamentarmi e perdere le staffe.
Gashapon machine, Giappone
Questa ossessione per la futilità videoludica mi lascia davvero perplesso. Sebbene riesca a vedere con estrema chiarezza gli insidiosi meccanismi del condizionamento e della dipendenza, non mi spiego altrettanto bene come ciò possa conciliarsi con la serie di attività parallele che porto avanti sul lavoro: attività altrettanto inutili, anzi, ancor più inutili.
L’ipotesi più credibile mi è suggerita proprio da questo scalino, da questa sottile eppure tangibile differenza: se, da un lato, il lavoro non mi dà assolutamente niente, il fast gaming, dall’altro, mi offre quantomeno qualche attimo di rilevanza, una parvenza di successo, l’illusione di un progresso lento ma lineare, tante luci, colori, animazioni, scontri PvP, zero pay to win e una sfilza di personaggi da sbloccare. L’uno rappresenta un’inutilità tossica, nociva, del tutto incapace di offrire consolazione ai mali della vita; l’altro un’inutilità di sponda, del tutto collaterale, tale solo se la si osserva dal punto di vista della produttività e del valore.
Il vero problema è l’infausta combinazione di questi due diversi tipi di futilità. L’isolamento. La stanchezza che cresce. La fuga che si proietta e rilancia nella fuga. (Non fraintendetemi, l’escapismo è meraviglioso, quando non ti impedisce di fare ciò che ti piace davvero fare o di stare con le persone che ami).
Come il mio umore, anche i miei impulsi creativi hanno cominciato a seguire dei ritmi da ottovolante. Un giorno sono in grado di scrivere, come se niente fosse, un terzo di un racconto lungo. Il giorno dopo nulla, un vuoto totale di idee, una totale incapacità di concentrarsi o di pensare a qualcosa che non sia il mio problema. Il giorno dopo ancora, disperazione, poi un’ora di scrittura di qualità più o meno passabile e di nuovo disperazione. Infine, per chiudere in bellezza, tre giorni di completa inattività. Al settimo giorno, resta almeno quel poco di lucidità per rendersi conto che tutto ciò che si è scritto riguarda, in un modo o nell’altro, proprio il problema.
Marvel: Contest of the Champions, uno dei giochi gashapon più noti in Occidente
La prima cosa che ho tentato di fare è stata razionalizzare, cercare di offrirmi da solo una spiegazione solida e concreta di perché stessi sopportando tale situazione. L'unico effetto è stato quello di intensificare la sensazione di intrappolamento. Giustificare la propria condizione di disagio, sofferenza o malattia – offrendo a se stessi sane e credibili motivazioni – non può che condurci a stare peggio, conferendo, al problema uno status di “naturalezza” e rafforzando l’impressione che ciò che ci accade sia ingiusto e tuttavia inevitabile. In secondo luogo, giudicare “dall’esterno” o “in terza persona” una serie di impressioni soggettive (magari facendosi incantare dall’altrui opinione su ciò che è lecito o non è lecito provare), fa sì che il soggetto stesso si senta colpevole e inadeguato rispetto a ciò che vive ed esperisce.
Con tutte le dovute differenze, continua a tornarmi in mente quel capolavoro che è “L’inferno sulla Terra”, di Jim Thompson, con la sua acuta analisi delle contraddizioni tra letteratura e lavoro.
La seconda è stata…respirare. Non credevo l'avrei mai fatto e, invece, a mali estremi rimedi. Sono contento di dire che non è servito assolutamente a nulla. Mi sono subito reso conto che respirare piano con il diaframma e mantenere la calma non avrebbe avuto alcun effetto concreto sul problema. Ho avuto, anzi, la netta impressione che tali escamotage contribuiscano solo ad aumentare il grado complessivo di repressione, conducendo a stati psicofisici potenzialmente esplosivi.
In una manciata di settimane, la mia rabbia si è generalizzata, tramutandosi in una sorta di resentment esteso su scala universale.
La terza cosa che ho fatto è stata cercare su internet (per quella specie di disperata compulsione che, prima o poi, ci coglie tutt*). Ho digitato sul motore di ricerca le parole “insoddisfazione lavorativa”, scoprendo che si tratta di un’espressione ben nota e molto popolare. Sebbene non ambisca al rango di definizione clinica, l’insoddisfazione lavorativa va a indicare un complesso di fattori psicologici o una sindrome esistenziale che, a quanto pare, colpisce buona parte dei lavoratori (chi l’avrebbe mai detto, eh?).
A esprimere tale disagio online, però, sono soprattutto i lavoratori del settore cognitivo e, più in generale, gli impiegati del terziario: sulla rete, di fatto, si può trovare una lunga lista di articoli e saggi di autoanalisi scritti con competenza, lucidità, nonché con un certo grado di autoconsapevolezza. Ciascuno di questi articoli, con l’ausilio di citazioni tratte dai guru della finanza e del self help, riesce a identificare in modo efficace le cause dell’insoddisfazione lavorativa – non le elencherò qui perché, credetemi, sono davvero tante. Ma è proprio qui che cominciano i guai.
Secondo un entusiasta content creator di Linkedin, ad esempio, basterebbe rendere i propri colleghi e datori di lavoro partecipi del proprio disagio, manifestando il proprio desiderio di innovazione (un idea che il povero Cristo mutua da un influente esperto di management). Per Randstad (una nota società che si occupa di risorse umane per conto terzi), invece, è soprattutto necessario rivalutare la propria posizione, cercando di “vedere le cose da un’altra prospettiva”; cito testualmente:
[...] Comincia a lavorare sul tuo modo di vedere le cose e cerca il lato positivo del tuo lavoro e delle attività che ti vengono assegnate; dedicati a questa riflessione puntualmente, al termine della giornata lavorativa, per cogliere quei piccoli dettagli che possono fare la differenza.
E, poco più avanti:
[...] Mantenere una dieta equilibrata, fare esercizio fisico regolare, dormire a sufficienza e trovare modi per gestire lo stress può fare una grande differenza e renderti maggiormente soddisfatto.
Di fronte a simili affermazioni sono rimasto esterrefatto – un attimo prima di darmi dell’idiota per essermi messo a cercare aiuto su internet per qualcosa di così personale. Quanto bisogna essere ingenui e, soprattutto, privilegiati per credere che ogni situazione di disagio lavorativo possa essere rinegoziata?
A conti fatti, non sorprende che a proporre tali soluzioni siano proprio dei laureati – gente che magari occupa, ha occupato o vorrebbe occupare posizioni dirigenziali all’interno di un’azienda. La sofferenza è qualcosa che, affinché vi sia produzione, dev’essere gestita, canalizzata e smaltita come la spazzatura.
Time-pressure
È francamente incredibile come la vita riesca a metterci con le spalle al muro. La sola idea di scoprirsi, di punto in bianco, così impotenti e così limitati, offre uno scorcio terrificante sulle leggi della termodinamica, ma anche sulla capacità di resistenza e sull’antagonismo della materia rispetto alla mente. Dinanzi a tutto ciò, il libero arbitrio va a farsi friggere in quattro e quattr’otto.
Quando si arriva a un certo punto, ormai, è troppo tardi. Non c’è più nulla da fare.
Classico banner promozionale di un articolo riguardante l’insoddisfazione lavorativa.
Dal punto di vista cronofilosofico è evidente come l’auto-commiserazione e l’auto-colpevolizzazione siano effetti prodotti dalla combinazione di due fattori temporali che noi tutti esperiamo quotidianamente: la pressione-temporale e l’irreversibilità – due modalità di rapportarsi al tempo sulle quali la psicologia, le scienze sociali ed economiche si sono spesso soffermate. Il primo termine fa riferimento all’incalzare del tempo: un tempo che in termini economici, lavorativi e comunicativi si fa sempre più veloce ma che, per noi esseri umani, risulta già di per sé incalzante sul piano fisico ed esistenziale. Il secondo all’impossibilità (non importa se oggettiva o soggettiva) di tornare indietro.
L’unione di questi due aspetti dà retroattivamente origine a un double pincer, nel quale il rimpianto per ciò che si è fatto o subìto viene cementificato dalla consapevolezza della nostra incapacità di porvi rimedio, accompagnata dalla necessità di far qualcosa per uscire da tale situazione di stallo. Inutile aggiungere che, da questo punto in poi, è in atto un processo di feedback positivo, attraverso il quale il senso di colpa si nutre dell’impotenza e viceversa.
In sostanza, la chiave di volta dell’insoddisfazione è il tempo. Non tanto il tempo rubato di Marx (che ne è pure un elemento importante), quanto il tempo annientato di Heidegger: il “niente che nientifica”. Non a caso a sottrarci, anche solo per un istante, dalla sofferenza sul lavoro è proprio l’idea di potercene andare in qualsiasi momento, di poter gettare tutto alle ortiche e uscire da lì sbattendosi la porta dietro. Ma anche il conforto dell’abbandono, la possibilità di poter fuggire lontano o togliersi la vita.
In termine heideggeriani, è l’essere-per-la-morte (l’autocoscienza della nostra mortalità e del tempo che passa) a rappresentare sia l’origine del nostro malessere, sia la soluzione più radicale a quest’ultimo. E, forse, un vago indizio di ciò che essa può fare ci è offerto proprio dalla nostra (mia) tentazione escapista: un puro abisso di inutilità in cui il gioco, l’arte, la letteratura, la riflessione e la velocità si fondono con tale forza e intensità da definire una “forma di vita limite”.
Ma dell’inoperosità parleremo nei prossimi giorni. Per ora, mi accontento di aver inquadrato il problema e di averlo posto al cospetto della morte – ciò al di là di cui nulla ha più senso.
Mi basta trascorrere un altro giorno al lavoro per rendermi conto di quanto sia per me importante e prezioso ciò che faccio al di fuori di esso. Né mi occorre altro per sapere che, a tali condizioni, la vita è insostenibile.
Per oggi non ho consigli da darvi, se non di prendervi cura di voi stessi.
A presto.
Mi viene voglia di consigliarti Reality is broken della McGonigal. Chiedo scusa in anticipo.
Bellissimo pezzo, complimenti