“Liminal” è il titolo di una serie di incontri brevi e senza fronzoli con autrici e autori, editor e case editrici che lavorano per espandere i confini della letteratura di genere e del pensiero critico e speculativo. Scopriremo insieme cosa li tiene svegli di notte (spoiler: non è solo il caffè) e cosa nutre le loro visioni da incubo, i loro sogni a occhi aperti, i vortici di complessità e i vacui abissi (spoiler: è anche il caffè).
Lucio Besana è uno dei più sofisticati e noti autori horror-weird italiani. Più volte finalista al Premio Hypnos, esordisce nel 2021 con la raccolta di racconti di weird distopico "Storie della Serie Cremisi" (Edizioni Hypnos), alla quale segue il romanzo "L'Innocenza del Buio" (Sperling & Kupfer) e la novella "Ombre dei Vivi e dei Morti" (Zona 42), più diversi racconti pubblicati singolarmente e in antologie.
C) Ciao Lucio. La prima domanda serve a spezzare la maledizione che affligge ogni operatore culturale: essere nient’altro che un nome (a volte una fotina) al quale viene attribuito un certo numero di titoli. Presentati a chi ci legge non come autore ma come persona. Chi sei nella vita quotidiana, cosa ti piace fare, con chi ho cosa (!) condividi le tue giornate?
Ciao Claudio, grazie di cuore per l’interesse. Vivo da dieci anni in Francia e penso di essermi mimetizzato alla città studentesca dove abito. Posso dire che in tempi di pace sono un Drugo Lebowski, nel bene e nel male, a cui piace fare colazione fuori, viaggiare, leggere, andare al cinema, passeggiare in montagna, andare in bici, e soprattutto passare del tempo con le persone che ama. Di recente mi sto disintossicando dalla cultura calvinista della mia nativa Brianza, e appena posso adotto un ritmo di vita rilassato, che mi consente di osservare e riflettere, e lavoro con assiduità e dedizione solo a ciò che per me ha un significato. Mi piacciono il Metal, il bowling, i Lego, i giochi da tavolo, Magic The Gathering, le escape room. Compro ancora dischi e film su un supporto fisico, nel negozietto dell’usato vicino a casa mia sono stufi di vedermi. Mi sento costantemente uno straniero in terra straniera, mi succedeva anche quando ero a casa dei miei in Italia, e questo è allo stesso tempo un vantaggio, per l’agilità che conferisce il non avere radici, e un fardello, per la solitudine e l’angoscia sempre dietro l’angolo. Ho uno spirito survivalista, mi basta poco e sono grato di quello che ho; ho anche una paura fottuta di perderlo.
C) Il tuo percorso come autore è molto vario. Sei passato dalla sceneggiatura ai racconti, fino ad arrivare alla novella, al saggio e al romanzo. Siamo già entrati nel tunnel delle domande tecniche, perciò ti chiedo qual è stato il tuo percorso? Quando e come hai iniziato?
Fin da bambino, e da prima di vedere un film dell’orrore o di leggere un racconto weird, ho avuto una fascinazione per l’immaginario oscuro. Data la mia età - all’epoca non avevo ancora dieci anni- la visione di certe pellicole mi era vietata; curiosamente, però, potevo leggere tutti i libri che volevo, e il primo linguaggio che ho imparato è stato quello della narrativa. Erano gli anni a cavallo tra gli Ottanta e i Novanta, sulle facciate dei cinema, nelle vetrine delle videoteche, sulle copertine degli album, sugli Almanacchi della Paura di Dylan Dog vedevo illustrazioni, fotogrammi e locandine contenenti immagini colorate, sfacciate, estreme, finestre su storie a cui non avevo il permesso di accedere; non mi restava che immaginarle a partire da quel materiale visivo, e scriverle. I miei primi lavori in prosa sono re-immaginazioni dei film usciti in quegli anni: Hardware, Leviathan, Link, Alien 3, It. Fu una specie di imprinting: tutt’ora il punto di partenza per la mia scrittura, narrativa o drammaturgica, è l’immagine.
La passione per il cinema, la letteratura e la scrittura è rimasta per molto tempo un hobby, parallelo al mio percorso di studi per diventare psicologo dell’età evolutiva. Ma a vent’anni ho visto al cinema La Compagnia dell’Anello, e ricordo di essermi quasi sentito male: avrei voluto scrivere, creare ciò che accadeva sullo schermo, e mi sono reso conto che il desiderio di fare cinema non era solo una fantasticheria infantile, che non potevo più procrastinare. Mi sono messo a studiare seriamente sceneggiatura e messinscena, analizzando film e script riga per riga, inquadratura per inquadratura. I miei voti come psicologo non hanno brillato, ma dopo la laurea ho passato la selezione della scuola Civica di Cinema di Milano (adesso Scuola di Cinema Luchino Visconti) e mi sono diplomato in regia. Poco dopo ho vinto il Premio Solinas Storie (ex aequo) e questo mi ha messo sul mercato. Durante la lavorazione di “The Nest” e “A Classic Horror Story” ho sentito di avere qualcosa di urgente da dire, che la mia identità di autore era, se non pienamente maturata, ormai definita, e sono tornato alla narrativa. Le opere brevi erano più giuste per gli effetti che volevo creare, oltre a incastrarsi meglio con il lavoro part time che avevo allora, e così sono nate le “Storie della Serie Cremisi” (Edizioni Hypnos), “Ombre dei Vivi e dei Morti” (Zona 42), oltre a un romanzo che spero di pubblicare al più presto, “La Stanza Bianca”. “L’Innocenza del Buio” è un romanzo che mi è stato commissionato da Sperling & Kupfer, e che ho adattato per la pagina da un’idea di Roberto De Feo. Volevo mettermi alla prova come scrittore professionista, piegare la mia scrittura a una visione diversa del mondo e dei personaggi. Qualcosa ho imparato.
C) In che modo, secondo te, cinema e letteratura si interfacciano tra loro? Sappiamo che, nel corso dell’ultimo secolo, la scrittura ha maturato un profondo senso di inferiorità rispetto al cinema, correndo ai ripari attraverso strategie che la avvicinano sempre più all’esperienza dell’inquadratura e del montaggio. Che ne pensi?
Il dialogo tra i due linguaggi può essere indagato sotto tanti aspetti, che non possono essere esauriti in poche righe. A titolo di spunto, il cinema è il linguaggio dominante, per ora: detta modelli strutturali, filosofie narrative (che la storia abbia un Eroe è già una dichiarazione filosofica), è diventato unità di misura per il ritmo dell’esperienza di lettura. In buona sostanza, ha creato una norma e un’aspettativa non solo nello spettatore ma anche nel lettore. Questo tipo di contaminazione è inevitabile: l’espressione artistica è una conversazione aperta, e deve arricchirsi ed evolvere, su tutti i fronti se non vuole estinguersi. Nei romanzi di Hugo e di Dickens, per esempio, spesso si avverte il punto di vista di uno spettatore a teatro. Ma finché la letteratura cercherà di imitare pedissequamente il cinema, conformandosi acriticamente al modello estetico che le è stato imposto, ne uscirà sconfitta. Anche prendendo in considerazione le mode di scrittura contemporanea, per quanto un romanzo sia “immersivo”, “non raccontato”, per quanto la scrittura si sforzi di sparire e mettere il lettore nella condizione di vivere un’opera dall’interno, l’esperienza cinematografica avrà sempre una marcia in più: a livello neurologico, lo stimolo visivo e soprattutto auditivo colpiscono sempre più forte e a fondo di una parola scritta, generano un coinvolgimento viscerale fulmineo, e la drammaturgia di una scena basata solo su dialogo e azione sarà sempre adatta più all’immagine che alla parola. Inoltre molti scrittori “immersivi” non hanno il talento drammaturgico, per esempio, di un Jim Thompson o di un Quentin Tarantino, non hanno la capacità di rendere ogni scena una piccola unità narrativa autonoma e soddisfacente; non hanno la capacità di conferire un significato simbolico ed emotivo ad ogni istante dell’esperienza di lettura, che è un talento necessario alla riuscita di questo tipo di tecnica, in assenza del quale si produce un testo pedante, freddo e, peccato mortale, noioso.
Un modo in cui la letteratura può non solo sopravvivere ma continuare a evolversi è dialogare con l’aspettativa del lettore, anche a partire dall’esperienza cinematografica, e tradirla, portandolo fuori dalla zona di conforto, in regioni dove può ancora meravigliarlo o orripilarlo come il cinema non può più fare. Mai come adesso la letteratura può rivendicare un ruolo di critica, parodia e satira della narrazione dominante. Penso a David Foster Wallace, che con Infinite Jest scrive un libro sull’intrattenimento che frustra il lettore per 1400 pagine con una storia che non si conclude mai, facendolo riflettere sulla sua dipendenza dalla distrazione, dal pay off, da una struttura narrativa mitica. O ancora, per muoverci verso la cultura pop, penso a George Martin, che nei primi tre libri di A Song of Ice and Fire rivolta le aspettative del più scafato lettore fantasy contro di lui, uccidendo gli Eroi, creando un deserto morale in cui il lettore si perde, usando la narrazione speculativa per riportarci con un tonfo a una realtà complessa. E non è solo questione strutturale ma linguistica: basta leggersi la Saga di Taglia dei nostri Mazza e Sensolini per capire quanto la lingua di un romanzo influisca sull’effetto di insieme, più ancora di storia e personaggi.
L’horror e il weird in questo senso sono sulla buona strada: sono generi di rottura, maleducati, perturbanti e rivoltanti per definizione. Parlano di mondi dove la struttura narrativa classica si applica fino a un certo punto, dove non c’è Eroe che tenga, dove siamo tutti ingranaggi di sistemi spietati, carne da macello. Leggendo autori come Nathan Ballingrud, Gabino Iglesias, Nichole Cushing, Paula D. Ashe, Brian Evenson, e i nostri Luigi Musolino, Paolo di Orazio, Emanuela Cocco, Francesco Corigliano, Gerardo Spirito, Alessandro Manzetti e Alessandro Pedretta, solo per citarne alcuni, si capisce quanto persino l’elevated horror (Aster, Eggers, Peele) che oggi va per la maggiore al cinema sia ancora timido in termini di audacia, originalità e potenza emotiva.
C) Attualmente, sei uno degli autori horror più apprezzati in territorio italiano, assieme a Luigi Musolino e Francesco Corigliano. Dalla tua, però, hai anche una solida preparazione critica e teorica (si veda il tuo recente “Traumacore”). In che modo pensi che ciò possa fare la differenza nello sviluppo di un’autentica scena italiana?
La mia preparazione non è così solida come sembra, le mie riflessioni sono quelle di un lettore e di un professionista della scrittura, non di uno studioso. Tra l’altro citi Francesco, che sul genere ha una cultura accademica molto più forte e completa della mia; ma anche Luigi non scriverebbe bene come riesce se non avesse in testa un’idea del genere chiara e salda, pienamente formata; e le introduzioni di Paolo Di Orazio alle sue riedizioni autoprodotte, se raccolte, produrrebbero uno dei saggi più illuminanti sui significati profondi del genere horror. Credo che sviluppare una conversazione critica sul genere sia necessario per tenerlo in vita, a patto però che la critica non lo cristallizzi, formalizzandolo, ma che ne individui le componenti più materiche, cangianti e dinamiche, la sua poetica in divenire. Così facendo aiuterebbe a prenderne consapevolezza, a tenerne viva l’essenza al di fuori delle sclerosi del mercato e delle imitazioni compulsive, a dargli un trampolino di lancio verso la sua evoluzione successiva. “Traumacore”, il saggio di Francesco “La Letteratura Weird - Narrare l’impensabile”, le riflessioni di Paolo, o lo splendido lavoro critico proposto da case editrici come Nero Editions non sono risposte perentorie ma i semi, spero, di conversazioni e di opere future.
C) Siamo alla domanda di rito. Qual è la tua routine di scrittura? Che consigli daresti a chi comincia a fare questo tipo di percorso per impostarne una efficace?
Considero parte della mia routine due ore di lettura al giorno, almeno. Per il resto scrivo in un caffè di Strasburgo, che amo, la mia seconda casa, una sorta di porto di mare che accoglie studenti, spiantati, intellettuali, artisti, pensionati, giornalisti, dove si parlano almeno tre lingue diverse; ci vado tutti i giorni in cui posso farlo, indicativamente dalle nove del mattino alle tre-quattro del pomeriggio. Fanno un cappuccino orribile, che chiamo “il cappuccino dell’Abisso”, che consiste in un caffè al gusto di fango, servito a temperatura di ebollizione, sotto una colata di schiuma di latte, fredda. Se provi a mescolare si forma una zuppa grumosa. All’inizio lo prendevo per nostalgia del cappuccino italiano, poi, per qualche motivo, è diventato indispensabile al mio processo creativo. I panini e la birra sono buoni, comunque.
Non saprei che consigli dare, credo che ogni scrittore sia diverso. Nel mio caso, è stata la scrittura a determinare la mia routine. Per chiunque abbia l’impulso di scrivere e voglia coltivarlo seriamente, per chiunque scrivere sia sopravvivere e non una velleità a cui deve forzarsi, credo che la routine prenderà forma da sola, lascerà un’impronta sulla loro vita come un’abitudine o un vizio.
Un altro consiglio che posso dare è di prendersi tempo, lasciar maturare la propria voce, trovare un proprio stile e ignorare le formule. Scrivendo non si diventa né ricchi né famosi, e occorre calibrare le aspettative circa l’impatto effettivo che si avrà sul mercato e sull’immaginario. Se il tuo libro uscirà un anno in ritardo, difficilmente questo influenzerà la sua performance di vendita. Ho visto scrittori pieni di talento che hanno calcolato al millimetro la loro carriera, facendo tutte le mosse giuste, per anni, arrivando alle major con opere perfette per il mercato, per poi ritrovarsi a vendere più o meno come nella scena indipendente. La verità è che oggi non c’è ragione per non sperimentare; non ti provochi un danno grave se osi. Adeguarsi alle regole di scrittura e di mercato non aumenta le possibilità del tuo libro. In un certo senso, abbiamo troppo poco da guadagnare nel conformarci, e tutto da perdere. Tanto vale mettersi al tavolo di scrittura e tentare di fare qualcosa che apra nuove porte, che spinga in avanti la conversazione del genere e dell’immaginario. E accettare che non sarai tu, non sarà un solo autore a dominare il mercato e l’immaginario del genere nella sua forma più pura e brutale - sarà piuttosto un movimento, un fronte coordinato. Non abbiamo bisogno di un altro King.
C) Quali sono le autrici e gli autori che ti hanno messo addosso la voglia di iniziare a scrivere e quali quelli che più ti hanno ispirato in anni recenti?
La voglia di scrivere è nata da sé quando avevo otto o nove anni. Vedevo una penna e un foglio e sentivo un impulso di servirmene che era più forte della mia pigrizia. Inizialmente leggevo libri-game, libri per ragazzi, gli albi di Dylan Dog e Martin Mystere, e il mio stile di scrittura si modellava su di essi. Poco prima del mio decimo compleanno mia madre mi regalò un libro di Poe, e quello fu il momento in cui iniziai a realizzare le potenzialità profonde della parola scritta. Tiziano Sclavi mi diede il primo assaggio di letteratura sperimentale con “Dellamorte Dellamore”, che lessi quand’ero troppo giovane, ma che mi diede del formato romanzo un’idea libera da qualsiasi schema. Negli anni successivi, gli autori che mi hanno accompagnato sono stati quelli che trovavo sugli scaffali della mia biblioteca di paese. I miei colpi di fulmine furono King, Lovecraft, Matheson, Bradbury, Campbell. Spesso sbirciavo nei libri che leggeva mio padre, come “Area di Contagio” di Richard Preston, un reportage splatter e piuttosto inesatto sul virus Ebola, e “Progetto Deus” di Pierre Ouellette, un romanzo folle e profetico, sorprendentemente ben documentato, su un’apocalisse biologica scatenata dall’incontro tra un’intelligenza artificiale e una banca dati genetica. Furono letture che diedero impulso al mio interesse per la scienza, allo sguardo esistenziale ed espressionista con cui la osservo tutt’ora. Con l’adolescenza arrivò Clive Barker, per molto tempo l’unico esponente di letteratura estrema a cui ebbi accesso, che mi insegnò a guardare la carne, il corpo e il sesso con gli occhi di uno scrittore, a scoprirne la potenzialità espressiva sulla pagina, a sfruttare il voyeurismo del lettore per portarlo a scrutare a fondo nella propria natura.
Victor Hugo è stato fondamentale per mettere a punto una narrazione per immagini: è incredibile la sua capacità di dipingere scene vaste, affollatissime e movimentate in poche frasi, senza mai diventare pedante, conservando un’eco poetica. Kafka e Buzzati mi hanno insegnato tutto quello che so sullo scrivere di angoscia e alienazione. Con “Underworld”, Don De Lillo mi ha convinto che la prosa è un genere completamente libero, di sperimentalismo totale, ma che non per questo parla meno chiaro al lettore. Paul Auster è stato un maestro di stile, di umanità e di inquietudine. John Williams mi ha dato intuizioni fortissime su come colpire i miei lettori senza fare affidamento sull’intreccio e i colpi di scena, e con lui John Cheever e Raymond Carver. Grazie a Bruce Chatwin ho capito che un paese straniero corrisponde, nella nostra immaginazione, a un paese inventato, e leggendo dei suoi viaggi ho capito come avrei affrontato il fantastico nelle mie opere. Jorge Louis Borges mi ha insegnato l’importanza dirompente del simbolo e della frase, che rendono una storia di poche pagine più ricca di intere saghe. Roberto Bolano ha ridefinito ancora una volta i miei concetti di sintesi, atmosfera e struttura. Da Thomas Ligotti ho appreso le tecniche per contaminare a fondo il senso di realtà del lettore, e la futilità di un worldbuilding coerente quando si vuole esprimere il proprio sentimento del mondo. Di recente, il recupero di autori come Paolo Di Orazio e la pubblicazione di Lisa Tuttle, Nathan Ballingrud, Poppy Z. Brite e Charlee Jacob da parte di case editrici indipendenti come Hypnos, Zona 42 e Independent Legions mi ha aperto altre porte, altre possibilità. E qui mi fermo. Ce ne sarebbero ancora decine.
C) Quali sono le tue influenze extra-letterarie (tra cinema, musica, videogiochi, giochi da tavola, sport e via dicendo)?
Le mie altre influenze derivano soprattutto dal cinema. David Cronenberg, Bela Tarr, John Carpenter, Harmony Korine, Michael Mann, Stanley Kubrik, David Lynch: spesso scrivendo mi ritrovo a cercare le loro atmosfere, i loro immaginari, il loro modo di vedere e inquadrare il mondo. Un film centrale per la mia formazione è stato “Apocalypse Now” di Coppola. Insieme a loro, nella mia testa c’è molto cinema di serie B: film come “C.H.U.D.”, “Non Aprite quella Porta”, “Hardware”, “Evil Dead”. La musica discordante e alienante di band come Meshuggah e Flotation Toy Warning mi ha aiutato a trovare e mantenere il mood per le mie storie; e ascolto ancora gli Slipknot per sintonizzarmi con l’approccio selvaggio e violento che richiede l’horror. Le copertine degli album di musica estrema e certa estetica punk degli anni ’80 sono un’ispirazione costante, per la loro abilità di riassumere in pochi tratti l’idea di una società marcia fino al midollo, o di un Male trascendentale e metafisico. Le illustrazioni di Daniel Danger, il lavoro di David Fragale e le “dramagrafie” di Michel Lagarde sono parti permanenti del mio moodboard mentale.
C) C’è una cosa che devo assolutamente chiederti. Cosa ne pensi del pubblico e dei lettori? Scrivi avendo in mente anche loro o ritieni che, nell’esperienza fruitiva, apprezzamento e rifiuto giochino solo un ruolo “di sponda”?
Non riesco a scrivere una storia se non ho in mente il lettore che potrebbe apprezzarla. Per me scrivere è condividere. L’ampiezza del pubblico a cui mi rivolgo non ha importanza. Il mio “business plan” come scrittore è quello di una band Metal: si inizia per pochi, ci si mantiene fedeli alla causa e vicini alla scena, e sulla strada si raccoglie chi veramente ci crede.
C) Eccoci alla domanda scema che più scema non si può. Qual è il tuo gruppo musicale “spreferito” (AKA Quello che proprio non riesci a sopportare)?
Se dobbiamo parlare di odio, per me è un testa a testa tra Oasis e U2. E non è un odio aristocratico, non è sdegno, è che proprio tirano fuori la carogna che è in me. Non mi piace la loro musica, ma la sento ovunque, e plausibilmente continuerò a sentirla fino alla fine dei miei giorni; provo una solida antipatia per la violenza e l’ipocrisia dei loro membri; e anche se mi piacessero non avrei i soldi per andarli a vedere, un pensiero mi accende una molotov in testa. L’incompatibilità esistenziale è massima. Potrei detestare più gli Oasis perché non sopporto i loro pezzi, mentre alcuni brani degli U2 non mi dispiacciono; ma gli Oasis mi hanno regalato lo spettacolo del loro scioglimento (e potrei avere un bis a breve), una soddisfazione che gli U2 mi negano da quarant’anni.
La risposta su U2 e Oasis è già culto